I contratti di convivenza permettono ai conviventi di fatto registrati (e cioè a quelli che abbiano registrato il loro stato di stabile convivenza etero o omosessuale nei registri anagrafici) di «disciplinare i rapporti patrimoniali relativi alla loro vita in comune» (articolo 1, comma 50). Significa che i conviventi di fatto possono affidare a un contratto, appositamente stipulato, la regolamentazione degli aspetti economici della loro relazione; non è obbligatorio, è solo una facoltà.
Il contenuto è ampio, con il limite che devono riguardare solo questioni inerenti l’ambito dei «rapporti patrimoniali» dei conviventi. Quindi, non sono idonei a regolamentare ad esempio profili personali o l’organizzazione familiare.
I contenuti
Nei contratti di convivenza possono dunque essere trattate materie come ad esempio (articolo 1, comma 53):
il luogo nel quale i conviventi convengono di risiedere;
le modalità che i conviventi convengono circa la reciproca contribuzione da effettuare per far fronte alle necessità della vita in comune, e ciò in relazione al patrimonio e al reddito di ciascuno di essi e alla rispettiva capacità di lavoro professionale o casalingo;
l’adozione del regime patrimoniale della comunione dei beni. A tal proposito, va sottolineato che il regime automatico è la separazione dei beni, poichè la comunione va scelta (al contrario del matrimonio e delle unioni civili).
Infatti, nel corso della convivenza (sia che si tratti di convivenza registrata che di convivenza non registrata) il regime degli acquisti è regolata dal principio in base al quale l’acquisto profitta solo al soggetto che lo effettua: per far sì che dell’acquisto compiuto nel corso del rapporto di convivenza da uno dei conviventi benefici anche l’altro componente della coppia, occorre non solo che si tratti di una convivenza registrata in anagrafe, ma pure che si tratti di conviventi che, qualora sia stipulato un contratto di convivenza, abbiano anche scelto di inserirvi la clausola dell’adozione del regime di comunione, e cioè di determinare l’effetto per il quale qualsiasi acquisto da chiunque compiuto durante la convivenza appartenga appunto alla comunione dei conviventi.
Per stipulare il contratto di convivenza regolato dalla l. 76/2016, occorre rispettare certe regole. Il contratto (nonché gli accordi con i quali lo si modifichi o lo si risolva) devono essere redatti in forma scritta, a pena di nullità, con atto pubblico o scrittura privata con sottoscrizione autenticata da un notaio o da un avvocato, i quali ne devono attestare la conformità alle norme imperative e all’ordine pubblico (ciò che riguarda soprattutto gli avvocati, poiché è ovvio che se un notaio accetta di stipulare un dato contratto, questo è evidentemente ritenuto lecito dal pubblico ufficiale rogante).
Una volta stipulato il contratto di convivenza, ai fini di renderlo opponibile ai terzi (e cioè al fine di pretendere appunto che i terzi debbano considerare comuni tra i conviventi gli acquisti da costoro compiuti durante la convivenza, ove abbiano optato per il regime di comunione) il notaio o l’avvocato che hanno autenticato l’atto devono provvedere entro i successivi dieci giorni a trasmetterne copia al Comune di residenza dei conviventi, al fine della iscrizione del contratto stesso nei registri dell’anagrafe nei quali è registrata la convivenza.
In sostanza, questo sistema pubblicitario è preordinato a permettere a chiunque di verificare se tra due determinati soggetti esista una situazione di convivenza registrata e come questa convivenza sia stata eventualmente regolamentata sotto il profilo patrimoniale; in questo campo non si pongono questioni di privacy, in quanto vi è l’esigenza esattamente contraria, e cioè di consentire che chi ne sia interessato possa compiere tutti gli accertamenti che gli occorrono o dei quali sia semplicemente curioso.
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