Ai fini della revoca dell’assegno divorzile occorre valutare se vi sia adeguata prova (pur presuntiva) dello svolgimento di un’attività lavorativa, anche solo in termini potenziali, in grado di garantire all’ex coniuge una posizione di indipendenza economica.
Lo afferma il Tribunale di La Spezia con sentenza del 31 ottobre 2017.
Nell’ambito di un procedimento per la revisione delle condizioni di divorzio, l’ex marito chiedeva la revoca dell’assegno per l’ex moglie sul presupposto che fosse inverosimile che la medesima non fosse riuscita a reperire un’attività lavorativa anche oltre vent’anni dopo la separazione, nonché adducendo un sopravvenuto peggioramento delle proprie condizioni economiche a seguito del pensionamento. L’ex moglie si costituiva chiedendo la conferma dell’assegno divorzile e deducendo di essere disoccupata nonostante gli sforzi profusi per cercare un impiego e chiedendo, in via riconvenzionale, l’attribuzione di una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’ex coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro.
Il decreto in esame affronta due questioni. La prima attiene ai presupposti per la modifica delle condizioni della sentenza di divorzio in punto di assegno a favore dell’ex coniuge, la seconda riguarda l’attribuzione al divorziato di una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro nonché la proposizione della relativa domanda nell’ambito del procedimento per la revisione delle condizioni del divorzio.
Il Tribunale della Spezia ha rigettato la domanda dell’ex coniuge onerato volta a ottenere la revoca dell’assegno divorzile in favore dell’altro sul presupposto che non fosse stata fornita la prova – anche presuntiva – che l’ex moglie avesse dopo il divorzio svolto effettivamente (o potuto svolgere) un’attività lavorativa tale da garantirle l’indipendenza economica. In particolare, tenuto conto dell’età e del titolo di studio della resistente e considerata la crisi che ha afflitto negli anni recenti il mercato del lavoro, le allegazioni del ricorrente sono state ritenute generiche e non idonee a fondare la domanda di revoca.
Neppure l’invocato peggioramento delle condizioni economiche dell’onerato all’assegno è considerato sufficiente a fondare l’accoglimento della domanda poiché la contrazione dei redditi desumibili dalla documentazione in atti non era tale da giustificare alcuna modifica delle condizioni in essere, anche tenuto conto dell’esiguità dell’importo dell’assegno divorzile.
Confermato quindi il diritto dell’ex moglie all’assegno divorzile, viene ritenuta fondata la domanda volta ad ottenere una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’ex marito e maturata successivamente alla pronuncia di divorzio, quantificando la somma dovuta tenuto conto del netto percepito e delle anticipazioni riscosse dal marito durante la separazione personale. Per il calcolo, il Tribunale adotta il criterio sposato dalla prevalente giurisprudenza ed ancorato al tenore letterale dell’art. 12–bis, l. n. 898/1970, in base al quale l’indennità deve computarsi calcolando il 40% dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro con riferimento agli anni in cui il lavoro coincise con il matrimonio, risultato che si ottiene dividendo l’indennità percepita per il numero degli anni di durata del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato con il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40% su tale importo.
È noto che la Corte di Cassazione con la sentenza Cass. civ., n. 11504/2017 ha ridelineato i presupposti del diritto all’assegno divorzile.
Pur apparendo al momento prematuro affermare che sia questo l’orientamento consolidato, considerato che si attende la decisione delle Sezioni Unite, è il caso però di rilevare che anche le successive pronunce hanno ribadito il medesimo principio (Cass. civ., sez. I, 22 giugno 2017, n. 15481; Cass. civ., sez. VI, 9 ottobre 2017, n. 23602; Cass. civ., sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327), vale a dire che la valutazione sull’adeguatezza dei mezzi va individuata non nel raffronto con il tenore di vita pregresso, ma nel raggiungimento dell’indipendenza economica e dell’autosufficienza della parte richiedente.
Il decreto in commento si allinea con il nuovo orientamento, laddove, nel valutare la richiesta di revoca dell’assegno divorzile sul presupposto che l’ex moglie inverosimilmente non avesse nei vent’anni trascorsi dalla separazione trovato un’occupazione e comunque sostenendo che aveva svolto attività d’assistenza agli anziani, il Tribunale ritiene che non sia stata fornita la prova adeguata (tenuto conto tra l’altro dell’età e del titolo di studio) dell’effettiva attività lavorativa svolta, attribuendo rilievo non ad una attività di qualsiasi tipo o in qualunque misura retribuita, bensì solo a quella in grado di garantirle una posizione di indipendenza economica.
Ma quando è possibile parlare di raggiunta indipendenza economica? E qual è il livello minimo di autosufficienza?
In generale, alla luce dell’attuale orientamento della Suprema Corte, per verificare se sussiste o meno l’autosufficienza economica occorre far riferimento ad alcuni indici, con la precisazione che quelli enucleati dalla sentenza della Corte di Cassazione del maggio scorso (e da ritenersi, a parere di chi scrive, non alternativi ma da esaminare complessivamente ed anche tenuto più in generale delle condizioni personali del richiedente l’assegno), sono poi stati in particolare dalla giurisprudenza di merito applicati con alcuni correttivi e operando una valutazione in concreto delle caratteristiche del caso di specie.
Non può infatti prescindersi da un esame della fattispecie concreta onde evitare soluzioni sbrigative che potrebbero penalizzare, ad esempio, il coniuge che durante il matrimonio ha impiegato tutte le proprie energie e risorse in favore della famiglia e che al momento dello scioglimento si trovi privo dei mezzi sufficienti a garantirgli l’indipendenza; in tali casi l’assegno assolve anche alla funzione del riconoscimento dei sacrifici e dell’attività svolta in favore della famiglia. Neppure parrebbe logico ancorare il parametro a limiti di reddito predeterminati in via generale poiché occorre tener conto non solo del contesto sociale di appartenenza ma anche delle oggettive condizioni e del costo della vita, quest’ultima circostanza variabile secondo anche l’ubicazione geografica.
Affermare a priori che l’ex coniuge che lavora non ha diritto all’assegno divorzile pare semplicistico. Così ragionando, come ha esplicitato Trib. Bologna, n. 1813/2017, si opererebbe un automatismo tra reddito e indipendenza economica, laddove, piuttosto, è sul principio di autoresponsabilità, per il quale non è tutelabile la posizione di chi si sottragga volontariamente allo svolgimento di adeguata attività lavorativa (Cass. civ., 1 febbraio 2016, n. 1858 con riferimento al mantenimento per il figlio maggiorenne), che occorre fare leva. Riprendendo le parole del Tribunale emiliano, i mezzi adeguati di cui all’art. 5, l. n. 898/1970 «vanno valutati nei confronti della persona singola, ma “tenuto conto” dei parametri di cui alla prima parte del comma 6 dell’art. 5. Pur con le relative differenze connesse alla diversa posizione del coniuge e del figlio maggiorenne, appaiono rilevanti anche nel caso oggi in esame i criteri della autoresponsabilità e della incidenza dell’età sull’onere della prova elaborati dalla giurisprudenza di legittimità con riferimento al figlio maggiorenne».
Il tema è dunque strettamente connesso a quello per cui la possibilità di lavoro personale, che deve essere effettiva, va valutata in relazione anche all’esperienza professionale maturata e al titolo di studio conseguito (v. Trib. Roma, sez. I, 23 giugno 2017) e all’attivarsi nella ricerca di una occupazione da parte del disoccupato (Trib. Treviso, 14 ottobre 2017; v. Assegno divorzile: quali sono i parametri per verificare l’assenza di indipendenza economica?, in IlFamiliarista.it).
È noto che, in forza dell’art. 9, l. n. 898/1970, la revisione è ammissibile alla luce della sopravvenienza di giustificati motivi successivi alla sentenza che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con ciò intendendosi mutamenti che si siano verificati nella sfera economica di una o di entrambe le parti. La giurisprudenza ha affermato che per la revisione dell’assegno di divorzio non è sufficiente la modificazione delle condizioni economiche degli ex coniugi ma occorre che essa sia tale da alterare l’assetto realizzato dalla precedente decisione sull’assegno, in aderenza alla sua funzione “assistenziale dovendo il Giudice verificare l’esistenza del nesso di causalità tra gli eventi addotti e il superamento della precedente situazione (ad es. Cass. civ., 3 gennaio 2011, n. 18).
Tuttavia, alla luce del révirement operato dalla Corte di legittimità con Cass. civ., n. 11504/2017, il parametro per valutare l’an dell’assegno divorzile non è più quello della conservazione del tenore di vita matrimoniale, bensì l’indipendenza o autosufficienza economica dell’ex coniuge beneficiario.
Il tutto sulla base di pertinenti allegazioni, deduzioni e prove offerte (con qualsiasi mezzo, anche presuntivo) dall’ex coniuge obbligato, sul quale incombe il corrispondente onere probatorio, fermo il diritto all’eccezione ed alla prova contraria dell’ex coniuge (Cass. civ., sez. I, 25 ottobre 2017, n. 25327, v. A. Fasano, Negato l’assegno richiesto trent’anni dopo il divorzio, in IlFamiliarista.it).
La decisione in commento applica i criteri enunciati: con il divorzio i coniugi avevano pattuito un assegno per la moglie sino a che non avesse reperito un lavoro che le consentisse di provvedere a sé stessa adeguatamente.
Come anzidetto, l’adeguatezza oggi deve essere parametrata all’autosufficienza economica e in aderenza a tale principio il Tribunale ha confermato il diritto all’assegno divorzile non essendo stata provato lo svolgimento (anche solo in termini potenziali) di un’attività lavorativa che garantisse alla donna l’indipendenza economica, senza che, nel caso di specie, potesse neppure desumersi una sorta di inerzia colpevole nella ricerca e reperimento di un impiego adeguatamente retribuito.
Relativamente alla seconda questione affrontata dal decreto in commento, vale a dire il diritto dell’ex moglie a una percentuale dell’indennità di fine rapporto percepita dall’ex marito e maturata successivamente alla pronuncia di divorzio, la decisione si allinea con l’orientamento maggioritario.
L’art. 12-bis, l. n. 898/1970 ha da sempre sollevato molte questioni interpretative, sia sulla ratio ispiratrice (di tutela del coniuge economicamente debole ovvero di valorizzazione dell’effettiva partecipazione del coniuge allo svolgimento della compagine familiare) che sui motivi della fissazione al 40% della percentuale di trattamento di fine rapporto, che sui criteri di quantificazione nonché il calcolo della quota spettante.
È possibile concludere che la finalità della norma sia di attuare una partecipazione “posticipata” al patrimonio costruito insieme dai coniugi durante il matrimonio in chiave, quindi, assistenzialistica.
Il diritto di cui all’art. 12-bis, l. n. 898/1970 sorge solo se l’indennità spettante all’altro coniuge maturi al momento della proposizione della domanda di divorzio o successivamente ad essa, poiché in precedenza operano altre disposizioni a tutela del coniuge (la giurisprudenza è conforme: tra le ultime, Cass. civ., 20 giugno 2014, n. 14129; sulla considerazione per cui, prima dell’instaurazione del giudizio divorzile le somme percepite entrano nell’esclusiva disponibilità dell’avente diritto, Cass. civ., 26 novembre 2015, n. 24184; Cass. civ., ord., 29 ottobre 2013).
Il decreto in esame si sofferma su quantificazione e calcolo della somma spettante all’ex moglie, escludendo la rilevanza, in linea con giurisprudenza e dottrina maggioritarie, sia delle anticipazioni percepite dal marito manenteseparazione personale sia delle somme al medesimo erogate a titolo di incentivo all’esodo, queste ultime poiché non rappresentano somme accantonate durante il pregresso rapporto di lavoro.
Il criterio del computo dell’indennità dovuta viene ben chiarito da Cass. civ., 6 luglio 2007, n. 15299 richiamata dal provvedimento del Tribunale della Spezia. La base su cui calcolare la percentuale ex art. 12-bis, l. n. 898/1970 è costituita dall’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto di lavoro. Ne deriva che, in base al coordinamento tra il primo e il secondo comma dell’articolo citato, l’indennità dovuta deve computarsi calcolando il 40% dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro con riferimento agli anni in cui tale rapporto coincise con quello matrimoniale; risultato che si ottiene dividendo l’indennità percepita per il numero di durata degli anni del rapporto di lavoro, moltiplicando il risultato ottenuto per il numero degli anni in cui il rapporto di lavoro sia coinciso con il rapporto matrimoniale e calcolando il 40 % su tale importo.
Circa invece la proponibilità della domanda di attribuzione di quota del TFR nel corso di un procedimento di revisione delle condizioni di divorzio, in passato la giurisprudenza sosteneva che il cumulo non fosse attuabile poiché il presupposto per l’attribuzione della quota del TFR è rappresentato dal giudicato sull’assegno divorzile e quindi la condanna dovrebbe essere una sorta di condanna condizionata al giudicato (ad esempio, Cass. civ., 23 agosto 2006, n. 18367). Successivamente, la giurisprudenza si è andata assestando sull’orientamento contrario (Cass. civ., 12 marzo 2012, n. 3924, conforme a Cass. civ., 14 novembre 2008, n. 27233) sulla base dell’evidente connessione tra le due domande: poiché il riconoscimento dell’assegno di divorzio condiziona l’accoglimento della domanda di attribuzione di una quota del TFR, è giustificata la proposizione di quest’ultima domanda nell’ambito del procedimento di divorzio o di revisione anche in virtù del principio di economia processuale.
www.ilfamiliarista.it
di Valeria Mazzotta
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